martedì 30 giugno 2015

"L'AMORE UMANO E DIVINO DI GESU'". Omelia di don Pascual Chavez



Carissimi amici del blog, 
condivido con voi un dono ricevuto da una persona amica, che prima della solennità del Sacro Cuore ha voluto regalarmi un'omelia di don Pascual Chavez, Rettore Emerito della Congregazione Salesiana.
Si tratta del testo pronunciato proprio in occasione della Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù.
Ho pensato di pubblicarlo alla fine del mese, affinché il 30 giugno non rappresenti la pagina di chiusura della nostra devozione, ma un punto di continuità verso un amore che non può mai subire battute d'arresto.

Un grazie riconoscente alla persona che ha voluto metterci a parte di questa omelia.
Buona lettura!








«L'AMORE UMANO E DIVINO DI GESÙ»
Omelia nella Solennità del Sacro Cuore di Gesù
Os 11:1.3-4.8-9; Cant Is 12:2-6; Ef 3:8-12.14.19; Gv 19:31-37
(Omelia di don Pascual Chavez )


Carissimi fratelli,

nella solennità del Sacro Cuore di Gesù, celebriamo oggi con tutta la Chiesa l’esaltazione dell’Amore, che è una – e senza dubbio la più importante – delle quattro dimensioni fondamentali dell’uomo: la conoscenza, la libertà, l’amore e la fede. Essa mostra che tutto è dovuto all’amore: dal disegno originale di Dio alla creazione, alla redenzione, alla pienezza della comunione in Dio. Tutto questo splende nel cuore di Gesù. È quanto abbiamo pregato nella prima parte della orazione colletta: “O Padre, nel Cuore del tuo dilettissimo Figlio ci dai la gioia di celebrare le grandi opere del suo amore per noi”.

Certo, ci troviamo in un’epoca in cui la devozione al Sacro Cuore ha subito un calo notevole (basterebbe fare riferimento alla pratica del primo venerdì del mese, che oggi ormai passa inosservato, almeno in molti posti), anche per una certa contestazione dottrinale che ha messo in discussione la validità della relazione del cuore con l’amore, tenendo conto che nella Bibbia il cuore allude piuttosto ai pensieri e all’intimo della persona umana. Inoltre, a molti questa devozione, legata al simbolismo del cuore luogo dell’amore, sembra qualcosa di sentimentale. Si è detto anche che si tratta di una devozione che, guardando astrattamente all’amore di Gesù, non ha diritto di comparire nel ciclo liturgico, il quale considera gli eventi concreti della salvezza umana. Infine, altri affermano che, essendo una devozione legata ad apparizioni private, non obbliga la fede.

Eppure si deve dire, con il Papa Paolo VI, che il mistero della Chiesa non “può essere compreso come si deve se i fedeli non portano la loro attenzione a questo amore eterno del Verbo Incarnato, di cui il Cuore di Gesù ferito è simbolo luminoso”. Su questa linea il Concilio Vaticano II afferma che Gesù amò con cuore umano, indicando così l’oggetto di questo segno o mistero: il cuore umano di Gesù in quanto segno e prova del suo amore umano e divino (cfr. GS 22).

Il fondamento evangelico è quello che ci presenta il testo di Giovanni, secondo il quale tutti gli uomini sono attirati da Cristo che, come agnello pasquale, si è offerto per la salvezza del mondo, con una fecondità spirituale meravigliosa, capace di rendere possibile la nascita di una nuova umanità, che nasce proprio del cuore di Gesù.

«Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi crediate». Raramente sono usate parole così forti nei Vangeli, dopo il racconto di qualche episodio riguardante Gesù: trattasi perciò di un avvenimento di straordinaria importanza. Quale? «Venuti (i soldati) però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, a uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua». L’avvenimento dunque è duplice: l’apertura del fianco di Cristo crocefisso; l’uscita da questa apertura di sangue ed acqua. Grande è veramente il mistero racchiuso!

La ferita inferta al costato è prima di tutto una porta aperta nella carne di Cristo, che ci consente di entrare in Lui. Entrando nel mistero di Cristo, noi, come dice l’Apostolo, siamo in grado “di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo”. L’apertura del suo fianco ci scopre definitivamente il suo cuore: i suoi pensieri, i suoi progetti. Attraverso un suo profeta, il Signore ci aveva detto: “Io ho progetti di pace e non di sventura; voi mi invocherete e io vi esaudirò”.

La ferita inferta al costato è anche fonte da cui sgorga acqua e sangue. Dal Cuore di Cristo viene effusa l’acqua che dona la vita ed il sangue che purifica. Nel deserto, il popolo ricevette l’acqua da una roccia che, colpita, si aprì e ne scaturì un fiume: nel pellegrinaggio della nostra vita la roccia che è Cristo si è aperta e da essa sgorga l’acqua che ci disseta. Gesù l’aveva promesso alla Samaritana. È l’acqua dello Spirito Santo. E al contempo esce anche sangue: cioè il sacramento dell’Eucarestia che ci consentirà di partecipare sempre all’amore del Crocefisso.

Ascoltiamo quanto insegna S. Agostino: «Nel costato di Cristo fu come aperta la porta della vita, donde fluirono i sacramenti della Chiesa ... Quel sangue è stato versato per la remissione dei peccati; quell’acqua tempera il calice della salvezza ed è insieme bevanda e lavacro... Il secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, perché così, con il sangue e l’acqua che sgorgano dal suo fianco, fosse formata la sua sposa. O morte, per cui i morti riprendono vita! Che cosa c’è di più puro di questo sangue? Che cosa c’è di più salutare di questa ferita?» (In Iohannis Evangelium, 120,2).

Il Cuore di Gesù sta quindi a simboleggiare l’immenso amore con cui il Padre ha tanto amato il mondo da dare il suo unigenito Figlio e allo stesso tempo l’amore infinito di Gesù che “dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Lui stesso descriverà in questa maniera la sua morte, come espressione suprema di amore: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Se è vero che, a livello semplicemente biologico, il cuore non ha niente a che fare con l’amore ma piuttosto con la vita, usato metaforicamente il simbolo del cuore diventa più ricco e carico di significato. Infatti, l'amore è la forza più vivificante, più del cuore stesso. L’amore è, dice San Paolo nella lettera ai Corinzi, l’unico carisma capace di sopravvivere alla morte, proprio perché è più forte della morte. Questo è il suo primato, questo è il suo valore assoluto, tolto il quale neppure i più grandi carismi servono a niente: “Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l'amore, non sono nulla” (1 Cor 13, 2).

Ma va detto che l'amore – libero per sua natura – è il dono più esigente, perché non può essere comprato con nulla e può essere ripagato soltanto con l’amore. Questo è il significato dell’eloquente brano di Osea, in cui il profeta fonde insieme la tenerezza e la passione di Dio: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione”. Gli uomini amati da Dio, il popolo colmato di amore e di cure, non hanno corrisposto. Ma Dio – “che è Dio e non uomo”, secondo parole del profeta –, ama appassionatamente e vincerà col suo amore le ingratitudini e l’egoismo. Anzi, li salverà facendo maturare gli uomini nell’amore.

Il Cuore di Gesù, come segno e simbolo dell'amore di Gesù che “ci amò sino a dare se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2), diventa così l’espressione più sublime e definitiva dell’amore umano e divino di Gesù per ognuno di noi, così come lo sentiva Paolo fino a scrivere: “Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?... Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 35-39). Ed era proprio questo amore che lo portava dopo ad amare i suoi con affetto profondo e dedizione zelante.

La magnifica pagina della lettera agli Efesini fa sentire, in questa stessa linea, ai cristiani che sono tutti avvolti in un immenso, tenero e forte amore, che sorpassa ogni conoscenza e che ricolma gli uomini di tutta la pienezza di Dio.

Forse la devozione al Sacro Cuore di Gesù dovrà trasformarsi, purificarsi di ogni espressione sentimentale ed arricchirsi biblicamente e teologicamente, ma deve essere conservata e diffusa come manifestazione suprema dell’amore sensibile, umano, di Gesù, che si donò al Padre e a noi. Potrebbe essere una devozione molto giovanile, capace di attirare i giovani, così sensibili all’amore ed al simbolo del cuore, ad “attingere con gioia alle sorgenti della salvezza”, che si trova soltanto nell’amore effettivo, quello che si fa oblazione di sé e non possesso degli altri.

La sete di vita e di felicità di tutte le persone, specialmente quella dei giovani, è una sete di amore, ma solo un amore vero, grande, profondo, duraturo, rende felici. E gli uomini fanno purtroppo ininterrottamente due costatazioni: un amore veramente pieno non esiste o non dura, perché pur sempre troncato dalla morte; inoltre l’amore subisce tutti gli attentati che lo degradano, lo sviliscono, lo uccidono. A questo punto, la fede viene a dirci che su questo l’uomo ha bisogno di essere liberato, reintegrato, restaurato, redento; che l’uomo deve imparare ad amare con sincerità e pienezza, ma che il suo amore non sarà tale se non è integrato nell’amore di Dio; e ancora che Dio si è fatto uomo per insegnarci che cosa è l’amore, come si ama.

Sembra che per noi salesiani questa devozione sia stata così familiare da essere stata assimilata all’icona del Buon Pastore “che conquista con la mitezza e il dono di sé” (C. 11), e alla carità pastorale (C. 14). La riflessione sulla vita di Don Bosco ci permette di verificare fino a che punto il nostro Fondatore si è ispirato in modo cosciente alla carità del Cristo.

Sembra opportuno qui richiamarci allo stemma della Congregazione che reca il busto di San Francesco di Sales e un cuore da cui escono fiamme, e all’art. 4 delle Costituzioni che ricorda appunto lo ‘zelo’ di San Francesco di Sales. La carità apostolica, che è al centro del nostro spirito, corrisponde esattamente a ciò che il nostro Patrono chiamava, secondo il linguaggio del tempo, ‘devozione’. Sembra perciò valido dire che la devozione al Sacro Cuore è molto salesiana, e segno di questo non sono soltanto la dedizione e le fatiche di Don Bosco per portare avanti la costruzione della Basilica al Cuore di Gesù, e il cuore che appare nello stemma, ma anche la dedicazione al Sacro Cuore di tutte le case di formazione della Congregazione, appunto perché al centro del nostro spirito si trova la carità pastorale, che “trova il suo modello e la sua sorgente nel cuore stesso di Cristo”, e che è “uno slancio apostolico che ci fa cercare le anime e servire Dio solo” (C. 10).

Guardare a Cristo modello vuol dire ricordare che il cammino di santificazione a cui siamo chiamati è un cammino di ‘cristificazione’, fino a dire come Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). La nostra vita e la nostra vocazione è una continuazione della missione di Cristo, nel predicare, nell'educare, nel salvare. Perciò la nostra missione consiste non nel fare cose, pur abbaglianti, ma nell’essere segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani.

Concludo invitandovi a fare nostra la preghiera dell’Apostolo che chiedeva per i cristiani di Efeso “che il Cristo abitasse per la fede nei loro cuori e così, radicati e fondati nella carità, fossero in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché fossero ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (cfr. Ef 3, 17-19).


Don Pascual Chávez V., SDB
Roma, San Tarcisio – 12 giugno 2015

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